Poteri del Colle e rischi per il governo


Corriere della Sera 5 Nov 2023
Antonio Polito

Pensavamo fosse la Terza Repubblica e invece era un calesse. Si potrebbe parafrasare Massimo Troisi per dire che cosa è accaduto alla riforma Meloni della Costituzione.

Ideata per dare più poteri all’esecutivo e più durata alle legislature, aspirazioni giuste e sulle quali la politica italiana si interroga sterilmente da decenni, il risultato sembra invece a molti una ricetta per maggiore confusione e caos. In materia di Costituzione il pessimismo è d’obbligo, vale la legge di Murphy: se una cosa può andar male (perché è concepita e scritta male), prima o poi di sicuro andrà male. Quando si tocca un equilibrio costituzionale bisogna costruirne un altro, e questo non sembra riuscito alla proposta di legge approvata dal Consiglio dei ministri. Vediamo quali sono le principali critiche e obiezioni mosse al progetto.

L’equilibrio dei poteri

Avere un premier eletto direttamente dal popolo pur conservando un capo dello Stato dotato dei poteri di gestione delle crisi è pressoché impossibile. E infatti nessuno al mondo c’è riuscito, e quasi nessuno ci ha nemmeno provato. Se dai troppi poteri al premier, trasformi il presidente della Repubblica in un soprammobile. Se lasci quei poteri al capo dello Stato ma gli togli quello più grande, e cioè la fonte di legittimazione, perché il premier è eletto dal popolo e lui no, provochi nella migliore delle ipotesi uno stallo del sistema, nella peggiore un conflitto permanente.

I poteri del premier

È il caso di questa legge. Per non andare contro i molti italiani che apprezzano l’esistenza di un «potere neutro», moderatore della lotta politica, e al fine di lasciare formalmente intatte le prerogative del Quirinale, non si danno al premier i poteri che invece ha in tutti i sistemi a governo «forte», anche senza essere eletto dal popolo: e cioè in Gran Bretagna, in Germania e in Spagna. Non può chiamare le elezioni quando ritiene, sciogliendo di fatto il Parlamento; non può nominare e revocare i suoi ministri; non viene investito personalmente dalla fiducia delle Camere, che invece continuerebbero a darla al governo come organo collegiale. Il nostro primo ministro (che non a caso si chiamerebbe sempre presidente del Consiglio) se ne andrebbe in giro indossando la corazza dell’investitura popolare, ma senza il bastone per disciplinare la sua maggioranza. Non più forte, dunque, ma solo «ingessato».

I poteri della maggioranza

Talmente «ingessato» che se qualcuno nella maggioranza volesse buttarlo giù, potrebbe farlo senza correre il rischio di tornare alle urne. Dovendo infatti garantire un minimo di flessibilità al sistema, nella riforma non c’è l’automatismo tra la caduta dell’eletto dal popolo e lo scioglimento delle Camere. Quando il premier viene disarcionato può dunque essere sostituito da un secondo premier, purché parlamentare della stessa maggioranza che ha vinto le elezioni, il quale potrà anche cambiare coalizione, a patto che prometta di attenersi allo stesso programma. Dunque almeno un «ribaltino», se non il «ribaltone», resterebbe possibile. Ma il paradosso più grande è che questo «secondo» premier, pur non essendo stato eletto, diverrebbe più forte del «primo» perché sarebbe anche l’«ultimo»: dopo di lui non ci potrebbe essere altro che lo scioglimento. Un esperto della materia, Peppino Calderisi, ha ricordato che una norma analoga fu approvata dal consiglio regionale della Calabria nel 2003, e prima di essere bocciata dalla Corte costituzionale finì per indurre i partiti a preferire la candidatura a vicepresidente, piuttosto che quella troppo caduca a presidente.

I poteri dei partiti

Ora immaginate — ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale — un premier sostenuto da tre partiti, uno grande e due piccoli. Uno dei due piccoli potrebbe sempre avere la speranza di prendersi Palazzo Chigi alla prima occasione. Il suo potere di ricatto diventerebbe anzi maggiore, perché sarebbe indispensabile per formare un nuovo governo. La conflittualità interna alle maggioranze, vero cancro della politica italiana e causa prima della scarsa durata dei governi, resterebbe perciò intatta, forse persino eccitata dalle nuove norme. Un giurista, Vladimiro Zagrebelsky, ha malignamente notato che, chissà perché, questa norma ha subito trovato il favore dei due partiti minori dell’attuale coalizione.

I poteri degli elettori

Ma quanti voti dovrebbe prendere questo premier per risultare eletto? Non si sa. Il testo della riforma costituzionale si limita a dire che chi vince prende il 55% dei seggi. Ma rinvia tutto il resto a una legge elettorale. Non è questione da poco. In tutti i Paesi in cui si elegge direttamente una carica di governo ci si assicura che abbia una vera maggioranza dei suffragi espressi, quasi sempre con il meccanismo del ballottaggio. Qui non c’è il ballottaggio. Si spera ci sia almeno una soglia minima da superare per fare l’en plein dei seggi; altrimenti, come è già accaduto, la legge è esposta alla bocciatura della Corte costituzionale. Magari sarà fissata al 40%. Ma questo sistema avrebbe comunque il difetto di dare un potere enorme alle estreme, decisive per il raggiungimento del quorum, invece che stimolare la competizione al centro, che di solito assegna la vittoria nei Paesi a democrazia temperata. E se la soglia non viene raggiunta, niente elezione diretta? Inoltre, altro difetto non da poco, la riforma non prevede un limite di mandati, come accade in tutti i Paesi europei (e anche in Italia per i sindaci).

Come se ne esce

Secondo molti critici il progetto sarebbe poco più di una mossa politica, destinata a dare uno slogan per la campagna delle Europee a Giorgia Meloni (Salvini avrebbe in cambio quello dell’autonomia differenziata per le Regioni). D’altra parte il testo richiede due letture da parte di entrambe le Camere, nella migliore delle ipotesi da un anno a 18 mesi di tempo. Siccome in questa formulazione non dovrebbe ottenere i due terzi dei sì in Parlamento, sarebbe comunque esposto a un referendum popolare. Già due volte gli italiani hanno bocciato le riforme costituzionali di Berlusconi e di Renzi, nel secondo caso costringendo alle dimissioni l’allora premier. Ma se invece si crede alle buone intenzioni della premier, allora sembra abbastanza chiaro che questo testo non le soddisfa. O apre perciò un dialogo con l’opposizione, o parte di essa, rinunciando al mito dell’elezione diretta in cambio di un effettivo rafforzamento dei poteri del capo del governo (possibile seguendo il modello tedesco o anche inglese). Oppure in Parlamento riscrive le parti che lo rendono non solo di difficile attuazione, ma anche pericoloso, così com’è, per l’equilibrio repubblicano.

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